Mediaset, la crisi e il digital divide del mercato tv

Da un articolo di Alessandro Penati su La Repubblica del 31 aprile 2012:

I governi Berlusconi hanno favorito Mediaset in tutti i modi. Inutile argomentarlo tanto è ovvio. L’andamento del titolo rispetto a Piazza Affari ha così seguito le fortune politiche del suo padrone: in salita all’inizio di ogni mandato; in discesa alla fine. Il grafico però mostra anche una crescente disaffezione del mercato, da un decennio in qua, nei confronti di Mediaset, che ha perso il 60% rispetto all’indice.

Un trend al ribasso dovuto alle difficoltà dei media tradizionali nell’era di internet, ma soprattutto a una serie di errori gestionali. Con un +6,2% annuo di fatturato in media negli ultimi dieci, Mediaset ha mantenuto una crescita elevata in un paese stagnante, e in un settore in declino. Ha giovato il trattamento preferenziale dei Governi Berlusconi; ma la crescita è anche il risultato di notevoli investimenti, che nel decennio hanno assorbito complessivamente 12,5 miliardi dei 16 di cash flow operativo generati dal gruppo. Il resto è andato in dividendi: quasi 4,5 miliardi. Un po’ troppi, vista la cassa disponibile, per cui l’indebitamento è aumentato di 1,5 miliardi.

Mediaset ha investito tanto, ma male: nel decennio, la redditività sul capitale investito è dimezzata, fino all’attuale 6%, insufficiente a remunerare il rischio. Anche i margini operativi si sono dimezzati, dal 23% medio di 10 anni fa, al 12% del 2011: un livello peraltro ancora ragguardevole. Mediaset dunque, come una ricca signora di una nobile casata in declino, rimpiange i fasti del passato e guarda con preoccupazione alle prospettive dei figli.

Ma agli investitori interessano le prospettive: dieci anni fa il capitale di Mediaset valeva in Borsa più di 4 volte il valore contabile, segno che ci si aspettava in futuro una red- ditività superiore al passato; oggi il premio di valutazione si è azzerato. Aspettative razionali, quelle degli investitori. Mediaset rimane aggrappata alla pubblicità televisiva, in un paese dai consumi stagnanti e con lo spettatore medio ultra cinquantenne della tv generalista che invecchia inesorabilmente. E fa dumping delle tariffe pur di accaparrarsi an- che la pubblicità dei media locali.

Di fronte alla concorrenza di Sky, invece di trasformarsi in produttore, vendendole programmi e format dedicati, o farle concorrenza con un satellite proprio (esiste solo l’offerta di canali digitali free su Tivù Sat con la Rai -ndr), ha usato il digitale terrestre per fare la pay tv dei poveri, abbattendo i ricavi per utente. Così, non riesce a remunerare gli ingenti investimenti. E si è ripresa la rete dei ripetitori (acquistando DMT e inglobandola in Elettronica Industriale – ndr), invece di scorporarla completamente per impiegare meglio il capitale.

Non ha compreso l’importanza di Internet (che reputa un luogo alieno dove far causa a chiunque per tutelare invano i propri contenuti– ndr), e non sa ancora come utilizzarla per generare ricavi (il servizo web Premium Play recentemente lanciato sicuramente non li genera). All’estero ha investito solo in Spagna, acquistando più della metà del mercato tv iberico con Mediaset Espana, un paese dalle prospettive peggiori dell’Italia. Ha cercato di entrare con Endemol nella produzione dei contenuti, finendo con un pugno di mosche, dopo un bagno di sangue (Endemol è infatti indebitata di 2,6 miliardi e sarà acquistata dai creditori -ndr).

L’editoria, in Mondadori, va per i fatti propri. E nonostante sia appesantita dal declino dei periodici in Italia, ha investito nei periodici anche in Francia; è mancato pure lei il treno di Internet. Più che le sinergie, forse conta la necessità di dare a ogni figlio un’azienda da gestire. Perso l’ombrello della politica, per Berlusconi è forse arrivato il momento di pensare a fondere Mediaset, Mondadori, e Fininvest, e affidarle a manager capaci. La noia di un futuro da rentier sarebbe forse resa meno pesante dall’accoglienza entusiastica che gli investitori riserverebbero alla decisione.

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