Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri il ddl di riforma della governance Rai. Una mezza riforma a dire il vero, che non cancella la lottizzazione della politica nell’azienda tv pubblica.
Il Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini passerà da 9 a 7 membri: due elleti dalla Camera, due dal Senato e due dal Tesoro e un altro dai dipendenti Rai; verrà introdotto il famoso amministratore delegato con maggiori poteri, nominato dal cda con parere dell’esecutivo; il presidente sarà nominato all’interno del cda. Il nuovo manager (in carica per 3 anni) avrà il potere di spesa fino a 10 milioni e nominerà i direttori e i dirigenti «sentito il consiglio di amministrazione».
Non cambiano per ora le norme sul canone Rai. L’intenzione ora del governo Renzi è quella di “semplificarlo“. «Abbiamo discusso della possibilità di semplificarne il pagamento, – dice Renzi – poi non ci siamo riusciti per motivi tecnici. Io appartengo a una cultura che vorrebbe in prospettiva eliminare il canone e lasciare la fiscalità generale a pagare il servizio pubblico. Questo cambierebbe le cose sul fronte della pubblicità».
La commissione di Vigilanza rimane l’organo di controllo dei partiti come è stata formulata dalla famigerata Legge Gasparri. Anzi la riforma rafforza la stessa commissione. Lo spiega lo stesso Renzi: «Viene rafforzato il potere di controllo sul servizio pubblico che è cosa diversa dal mettere bocca sul palinsesto. Difendiamo il ruolo perché siamo a favore del fatto che il Parlamento vigili e controlli». Il mantenimento della Vigilanza forse è legato anche al rispetto delle sentenze della Corte Costituzionale che ancorano il controllo della Rai al Parlamento.
Confermata anche la direzione della trasformazione della Rai in una Spa, regolata dal codice civile. Il sottosegretario Giacomelli ricorda l’importante appuntamento con il rinnovo della concessione Stato- Rai nel 2016 e descrive la tv pubblica come «una media company pronta a produrre per tutte le piattaforme, capace di recuperare centralità nella vita del Paese e il suo ruolo di traino, in grado di contribuire a far superare il digital divide», culturale e tecnologia dell’Italia rispetto al resto del mondo.
Il premier non eletto vuole una Rai «liberata dal dibattito frustrante che si registra tra le singole forze politiche con i partiti fuori dalla gestione dell’azienda, una Rai che appassioni anche gli adolescenti, produca cultura, faccia crescere la domanda di bellezza, ci faccia riconoscere come italiani anche all’estero, porti la nostra lingua nel mondo». «La Rai ha raccontato e costruito l’identità culturale e sociale del nostro Paese – si legge sul sito del governo – ma con gli anni la morsa della burocrazia e dei partiti ha ridotto fortemente la sua capacità di competere, soprattutto a livello internazionale, indebolendo l’azienda. Oggi occorre riannodare i fili di quell’identità».
Roberto Fico, deputato del Movimento 5 Stelle e presidente della Commissione di Vigilanza Rai, definisce la riforma annunciata ieri dal governo «la Gasparri 2.0 alla Renzi». «Questo disegno di legge non ci piace. Non cambia sostanzialmente nulla della legge Gasparri. Anzi, peggiora di gran lunga la situazione. La riforma prevede che due membri del cda siano di nomina governativa: tra loro c’è l’amministratore delegato, con poteri pieni. Poi ci sono quattro membri eletti da Camera e Senato, con voto limitato».
Ora, continua Fico intervistato dal Corriere della Sera, «ogni parlamentare può mettere un solo nominativo. Ma non essendo prevista una maggioranza qualificata, i partiti che sostengono il governo possono fare l’en plein e prendere tutti i consiglieri. Quindi se la maggioranza alla Camera si mette d’accordo su due nomi — e cioè una parte vota uno, l’altra un altro — i due membri sono entrambi espressione della maggioranza. Questo fa sì che il governo abbia il controllo del cda». Con questa riforma «non solo i partiti continuano ad avere il controllo della Rai, ma ce l’hanno i partiti di governo e l’esecutivo».
Fonte: Il Corriere della Sera