Arrivano al pettine tutti i nodi del digitale terrestre. Le piccole emittenti sono sul piede di guerra e minacciano una resistenza a colpi di ricorsi al Tar. Gli operatori cellulari intanto non vogliono pagare senza certezze. E il ministro dell’Economia minaccia tagli.
Adesso la patata bollente è tra le mani di Paolo Romani. Lui ha scelto sulle fine dello scorso autunno di non rinviare di almeno sei mesi, come minimo, il passaggio al digitale terrestre di tutto il ricco settentrione. Sempre lui ha accettato il rischio di dare inizialmente a un’emittente locale su tre di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna delle frequenze che ora deve riprendere e riassegnarle agli operatori mobili se vuole che dall’asta per la banda larga mobile escano 2,4 miliardi che il suo collega Giulio Tremonti ha messo nel legge di Stabilità già per quest’anno.
Tremonti invece è tranquillo. Ha già fatto sapere che se quei soldi non arriverenno, lui non vede problema. La soluzione è scontata: taglierà di 2,4 miliardi i budget di spesa di tutti i ministeri. E ora si gode la partita. Che sarà lunga. Giovedì scorso, l’ultima riunione del CNID, il Comitato nazionale Italia Digitale, ha approvato il calendario definitivo degli Switch-off del digitale terrestre, confermando la proposta del 1° marzo, ma l’ufficialità non ha trovato l’approvazione dalle tv locali.
D’altra parte ad aver fretta a questo punto è solo Romani. Non hanno fretta le tv ocali, perchè sanno che il tempo gioca a loro favore. Non hanno fretta nemmeno gli operatori mobili che tanto prima della fine del 2012 non potranno comunque disporre delle frequenze. Il ministro dello Sviluppo economico, che gestisce ancora direttamente la delega alle Comunicazioni, invece si vede arrivare al pettine contemporaneamente due nodi ben aggrovigliati e un pò imbarazzanti da gestire assieme. Si troverà infati a dover bandire a distanza ravvicinata, quasi in contemporanea, due gare sulle stesse frequenze: una, il famigerato beauty contest, per assegnare gratis 5/6 bande radio alle tv (primi candidati Mediaset, Rai e Telecom Italia), l’altra gara per assegnarne 9 frequenze alle telefonia ma con l’obiettivo di spremere agli operatori quanti più soldi possibile.
Ecco come si è arrivati all’impasse. A marzo, con il decreto Milleproroghe, è passato il regolamento con cui il ministero dispone che i canali da 61 a 69 UHF saranno assegnati alla telefonia mobile (lo impone l’Europa) e che quindi, dai prossimi Switch-off, le tv locali che oggi trasmettono, in analogico su quei canali non si vedranno riconoscere quella frequenza per l’uso digitale. Non saranno cioè più operatori di rete e i loro contenuti dovranno essere “ospitati” su multiplex assegnati ad altri operatori. In compenso riceveranno un indennizzo pescando ai fondi ricavati proprio con le aste delle telecom. Quanto? Un 10% dei 2,4 miliardi fissati come obiettivo. Da notare però che quello è un tetto. Se anche delle aste dovesse uscire perfino il doppio, le locali empre 240 milioni di di indennizzi avranno a disposizione.
Sono tanti? Pochi?. «Pochissimi – afferma senza esitazione Filippo Rebecchini, presidente di FRT, la maggiore associazione di emittenti locali – Per due ragioni. Perchè stiamo parlando di circa un’emittente locale su tre che resterà senza frequenze: 159 in tutto sulle 550 totali. E poi per la valutazione. Quei 240 milioni corrispondono a una valutazione di 50 centesimi ad “abitante illuminato”. Poco tempo fa si sono vensue frequenze a un valore medio tra 1,5 e 2 euro ad “abitante illuminato”. Ora, non chiediamo che il fondo di indennizzo sia 3 o 4 volte tanto, ma di soli 240 milioni non se ne parla proprio». Chi è andato ancora oltre è il presidente dell’altra associazione di tv locali, l’Aeranti-Corallo: Marco Rossignoli ha messo sul tavolo il suo asso dicendo che se le cose stanno così sarà tutto un fiorire di ricorsi al Tar dalle Alpi alla Sicilia.
La forza delle locali è che la situazione è ingestibile. Non si può fare a meno di una misura che sia almeno per larga parte condivisa. Perchè non c’è solo da completare lo Switch-off, ma si tratta anche di andare materialmente a togliere le frequenze alle locali che già le usano legittimamente perchè sono state loro assegnate fino a pochi mesi fa. E qui entrano in ballo gli operatori telefonici, che oviamente tirano su il prezzo, come è normale che sia. Ma che al di là del mercanteggiare delle ragioni valide al loro arco le hanno pure. Intanto i soldi. Sull’entità dell’esborso sono tutti ormai rassegnati. Anche se tutti sognano e citano il caso Svezia, dove le pregiate frequenze 800 MHz sono state assegnate per soli 300 milioni, il resto d’Europa viaggia su cifre analoghe alle nostre. Per non parlare degli Usa dove Obama ha già annunciato che nei prossimi dieci anni vuole incassare dalle frequenze altri 27,6 miliardi di dollari in aggiunta ai 19 già ottenuti 3 anni fa.
Ma ci sono due aspetti che preoccupano di più dell’entità. La prima riguarda i tempi di pagamento, la seconda i contenziosi. Partiamo dalla prima, la più facile. Pagare tutto subito è vista come una iattura, e non hanno tutti i torti ad affermare che sarebbe pesante. Tanto più che sono tutti in situazioni societarie delicate: Telecom per i debiti, Wind per il passaggio da Sawiris a Vimpelcom in cui deve cercare di mantenere quanta più autonomia possibile, Vodafone perchè abbasserebbe la sua redditività, 3 perchè è appena arrivata all’utile e tornerebbe indietro. C’è un’ipotesi che alla fine potrebbe trovare consensi. Ragionare sull’alternativa: o tutto subito ma scontato, oppure la cifra piena ma dilazionata nel tempo. D’altra parte la stessa Agocm, nel testo messo a consultazione pubblica ne accenna. E il suo segretario generale Roberto Viola, in una recente lunga intervista al Corriere delle Comunicazioni ha aperto più di uno spiraglio, al punto da ipotizzare che l’incasso dell’asta potrebbe perfino avvicinarsi ai 3 miliardi.
Ma dove invece a oggi non si vede accordo è sul contenzioso. Quando gli operatori dicono che sono disposti a pagare ma solo per frequenze libere, non dicono che le frequenze devono essere libere al momento dlel’asta, cosa ovviamente impossibile se il governo vuole farla entro l’autunno per rispettare il piano di stabilità. Dicono invece una cosa diversa ma molto precisa: che non vogliono dover pagare loro i costi necesssari per far rispettare il loro diritto, acquisito a suon di miliardi. Insomma, ci pensino la Polizia Postale, la Finanza, i Carabinieri o la Forestale, ma non loro. Non solo per i costi ma soprattutto per i tempi. Anche perchè tra i ricorsi al Tar, sospensive e appelli al Consiglio di Stato la cosa può prendere anni. Non certo i pochi mesi che le telecom mobili dovettero sopportare nel 200, dopo l’asta UMTS. A quei tempi pagarono molto di più, è vero, ma allora il denaro circolava molto più di adesso, i consumi erano in crescita costante assieme alla borse dentro la bolla dell’Hi-tech, i primi terminali UMTS erano piuttosto indietro e comunque era le prima volta delle aste. Oggi, dieci anni dopo, con meno soldi, aria di crisi, banche dai cordoni della borsa molto stretti tutti guardano il centesimo.
E per Paolo Romani la partita si complica. Per ora è ricorso al sistema dei tavoli: il CNID si scinde in tre o quattro mini-CNID per singola tematica con degli sherpa che si riuniranno ogni settimana di qui a metà maggio. Perchè per allora l’Agcom emanerà il regolamento definitivo. Da quella data in poi tutto quello che resta da fare sarà del suo Ministero. A detta di chi naviga il settore se tutti i passaggi verranno svolti con la massima rapidità si potrebbe arrivare al bando prima dell’estate, per poi fare la gara in autunno. Ma sciogliere il nodo delle tv locali non sarà facile. E pensare a un ministro del governo Berlusconi che manda la polizia contro le tv locali (Mediaset nominalmente ancora parte della FRT, e Romani stesso viene dal mondo delle tv locali) non è una bella prospettiva, specie in questa lunga campagna eletorale italiana. Solo Tremonti resta tranquillo.
Fonte: Repubblica Affari&Finanza