WikiLeaks: Berlusconi censura Internet per favorire Mediaset. Se lo dicono gli USA allora…

Da un articolo di Beatrice Borromeo del 15/12/2010 sul Il Fatto Quotidiano:

Il governo incassa la fiducia e Mediaset vola in Borsa: ieri pomeriggio, dopo che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si è salvato alla Camera per tre voti, il miglior titolo a Piazza Affari era proprio il colosso televisivo che fa capo al premier: +3,3 per cento in una giornata in cui il listino è rimasto praticamente piatto.

Non c’era bisogno delle rivelazioni di WikiLeaks per scoprire che Berlusconi usa l’esecutivo per “guadagnare più denaro e controllare meglio l’informazione pubblica”, come scrive l’ambasciatore Usa a Roma, David Thorne, in una nota informativa indirizzata a Washington. Bastava consultare il listino della Borsa Italiana dell’ultimo mese: il 9 novembre comincia, contestualmente all’esplosione della crisi di governo, anche il crollo del titolo Mediaset, che da 5,4 euro scende fino a 4,2. Da ieri la risalita. Ma i documenti diffusi negli ultimi due giorni da Julian Assange, che proprio ieri è uscito di prigione grazie al pagamento di una cauzione (circa 200 mila sterline), coinvolgono direttamente uno dei fedelissimi del premier, il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani.

L’anticipazione è affidata al quotidiano spagnolo El Paìs e si riferisce a una comunicazione tra Thorne e il Dipartimento di Stato americano del 3 febbraio 2010, proprio mentre in Italia si discuteva molto delle conseguenze del cosiddetto “decreto Romani”. Un testo che “darà molti vantaggi commerciali a Mediaset, la televisione del premier, a scapito di Sky, il suo principale concorrente (in realtà l’unico)”, scrive l’ambasciatore.

Nella prima stesura del decreto, che recepiva una direttiva europea sui servizi audiovisivi, era infatti prevista un’autorizzazione ministeriale per le web tv e la responsabilità in capo agli Internet server provider dei contenuti trasmessi (era stato soprannominato anche “decreto anti-You Tube”). Marco Pancini, il responsabile per le relazioni istituzionali di Google in Italia, lamentava: “Il decreto dà ai provider su Internet le stesse responsabilità delle emittenti televisive, solo che queste si occupano direttamente dei contenuti, mentre You Tube si limita a mettere a disposizione le proprie piattaforme agli utenti”. In ballo c’era anche una causa intentata da Mediaset a Google che, se il decreto fosse diventato legge senza modifiche, avrebbe dato ragione alla tv di Berlusconi, assicurandole un risarcimento da 500 milioni di euro per violazione dei diritti d’autore da parte di You Tube.

Non solo Sky dunque, ma anche Google, la sua controllata YouTube e Facebook (sotto accusa per essere stato il principale strumento organizzativo del “No B. Day”): i colossi americani presi di mira dal Cavaliere erano un po’ troppi per non attirare l’attenzione dell’ambasciata Usa. Che, come ovvio, si interessa dei destini delle imprese americane nel Paese di cui si occupa. E se alcuni degli aspetti più contestati sono poi stati rimossi in sede di approvazione definitiva del decreto Romani, altri sono stati invece confermati. Come la riduzione progressiva dei tetti di affollamento orario della pubblicità per la pay tv (dal 18 per cento al 12 per cento entro il 2012), misura che colpisce il nemico numero uno di sempre, Sky.

David Thorne non si ferma solo all’aspetto economico, perché il conflitto d’interessi di Berlusconi “potrebbe servire da precedente a nazioni come la Cina, che potrebbero copiare o citare norme come il decreto Romani per giustificare i propri attacchi contro la libertà d’espressione”.

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