Da un articolo di Massimo Mucchetti su Il Corriere della Sera del 13/05/2011:
La verità è che l’azienda radio televisiva pubblica, patrimonio inestimabile del nostro paese, sta marciando inesorbilmente verso l’asfissia finanziaria e l’inconcludenza imprenditoriale con il beneplacito del governo di Silvio Berlusconi. Debiti per 320 milioni, perdite per 180. Sono i conti (in rosso) della Rai, ai quali Lorenza Lei, nuovo direttore generale, il primo donna dal 1924, dovrà far fronte. Non siamo al disastro dei primi anni ’90 ma la deriva è preoccupante. Calano i ricavi pubblicitari (-20% rispetto al 2007, ultimo anno pre crisi) e anche gli ascolti: e la concorrenza si avvantaggia.
Nei primi anni ’90 i debiti arrivarono a 6 volte il capitale; oggi la crisi non è così grave, ma il trend non promette nulla di buono. Il segnale più allarmante è il debito. Nel 2007 la Rai aveva 16 milioni di debito e 127 di contanti e depositi bancari. Oggi 320 milioni e poca liquidità. Ma la sua gravità sta non tanto nelle cifre quanto nella loro qualità. Il debito non è sempre un male. Vi si può ricorrere spesso per fare nuovi business. È quanto hanno fatto Sky Italia, che ha mandato la pay tv nelle case di 5 milioni di italiani, e Mediaset, che la sta inseguendo su questa strada e ha comprato il produttore di format tv Endemol e la casa cinematografica Medusa. Sky e Mediaset hanno debiti superiori alla Rai, ma hanno anche nuove fonti di reddito. Fanno impresa. E consegnano generosi dividendi ai soci.
La Rai, invece, accumula debito senza distribuire dividendi perché non genera cassa, che in un’impresa televisiva pura com’è la Rai è la somma algebrica degli ammortamenti tecnici e del risultato netto d’esercizio, negativo per 180 milioni negli ultimi due anni. Nel 2009, annus horribilis per tutti, la Rai ha prodotto cassa per 49 milioni. Nella ripresina del 2010 solo 4 milioni. Il budget 2011 prevede di tornare sopra i 200 milioni, ma tagliando le spese di programmazione, mentre l’anno prima aveva rinviato parte degli investimenti tecnici. Nello stesso periodo, la Rai ha rallentato i pagamenti ai fornitori, recuperando, si fa per dire, 200 milioni di liquidità. Ma quanto è credibile il budget 2011 che Mauro Masi lascia in eredità, date le variazioni tra preventivi e consuntivi nel 2010 e la performance pubblicitaria già deludente nei primi mesi dell’anno?
Di questo passo l’azienda tv pubblica si condanna alla paralisi: o paga la programmazione corrente oppure investe per il domani, un’alternativa diabolica di fronte a colossi come Mediaset e Sky. La Rai ha inoltre due gravi handicap nei ricavi: rispetto al 2007, ultimo anno normale, la crisi ha fatto perdere alla Rai il 20% dei ricavi pubblicitari, mentre a Mediaset ha tolto solo un 7%, che è meno della metà della media delle tv commerciali internazionali. Il valore economico reale del singolo punto percentuale della quota degli ascolti Rai è sceso da 29,2 milioni di euro del 2007 ai 24,9 del 2010. Lo stesso indicatore per Mediaset aumenta da 60,4 a 64,7 milioni. La divaricazione è tanto più forte ove si consideri l’andamento degli ascolti, più sfavorevole al Biscione. È ben possibile che alcuni grandi inserzionisti possano aver spostato quote di spesa pubblicitaria dalla Rai a Mediaset per simpatia o timore del premier. In fondo, è la stessa Mediaset a sottolineare il favore goduto presso i suoi primi 100 clienti. Nella raccolta pubblicitaria poi ha lo svantaggio strutturale del “tetto Rai” di spot che può mandare in onda (lo vollero gli editori negli anni Settanta per proteggere i giornali a prezzo amministrato) che la penalizza rispetto ai concorrenti nella sfida con la tv commerciale.
La giustificazione del «tetto Rai» è fin dall’origine il canone. Il canone Rai non è certo tra i più alti d’Europa. Oggi concorre al finanziamenti di 16 canali. Per quanto molte siano le repliche, in Rai come altrove la produttività è aumentata. Ma il canone è un ricavo sul quale l’azienda non ha giurisdizione, che viene aggiornato il meno possibile e senza regole. In più, il canone ordinario dà un gettito inferiore al dovuto. L’evasione viaggia sul 28%. Fosse ridotta alla media europea del 10%, la Rai avrebbe circa 400 milioni di ricavi in più. E molte altre centinaia di milioni (800-900) potrebbero venire dal canone speciale, evaso per il 90%, che si dovrebbe applicare ad alberghi, locali pubblici, banche, aziende. Potrebbero venire, ma non verranno, perchè il ministro delle Attività produttive, Paolo Romani, proprio nei giorni scorsi (mentre Berlusconi in piena campagna elettorale dichiarava pubblicamente che non pagherà più l’abbonamento Rai) ha deciso di soprassedere alla proposta di inserire il canone Rai nella bolletta Enel perché i programmi del servizio pubblico non lo convincono.
La battuta del ministro, storicamente legato al Biscione, è il segno di quanto sia cambiato il quadro competitivo. Per molto tempo Silvio Berlusconi non ha disturbato più di tanto la Rai, perché il duopolio collusivo gli garantiva l’esclusione di ogni altro concorrente dal mercato televisivo. Nel 1993, mentre si preparava la discesa in campo del capo, in una riunione della corporate Fininvest, fu Gianni Letta a placare i bollenti spiriti del consiglio di amministrazione che aveva appena soffiato il Giro d’Italia alla Rai: non si sfida la Rai, accontentiamoci di guadagnare di più, disse.
Da qualche anno, con l’irruzione di Rupert Murdoch sulla scena, tutto cambia. Dopo l’affermazione nella pay- tv, Sky vuole entrare nella tv generalista in chiaro. Improvvisamente, il duopolio si scopre imperfetto. E allora la Rai, tenuta smilza sul canone, fatica perfino a esaurire i suoi minori spazi pubblicitari e viene usata come un ascaro contro Sky: Masi non rinnova il contratto con la pay-tv di Murdoch per la trasmissione in chiaro dei canali digitali Rai, che avrebbe garantito 50-70 milioni l’anno per 7 anni, e si impegna nella costruzione della una piattaforma comune Tivù Sat con il concorrente privato italiano per la tv a pagamento pur non avendone una. Quando il gioco si fa duro, la vecchia linea di Letta diventa un lusso.