Da un articolo di Massimo Sideri sul Corriere della Sera del 22/08/2012:
In questi 12 mesi sono accadute molte cose: è stato a lungo annunciato Digitalia, il decreto legge per attuare lo switch-off della rugginosa e anchilosata burocrazia pubblica. È stato avviato un processo di accorpamento dei diversi uffici istituzionali finalizzati alla smaterializzazione dei processi in un’unica Agenzia digitale che anche Bruxelles ci chiedeva.
Sono stati quasi licenziati due disegni di legge parlamentari — uno del Pd e l’altro del Pdl, anch’essi saggiamente accorpati prima dell’estate — per traghettare il Paese verso una struttura più immateriale e snella, termini che possono giustamente spaventare ma che appaiono più capaci di difendere i posti di lavoro nel 2012. Si è a lungo parlato di un decreto legge ad hoc per le start up, un altro termine che rischia di voler scimmiottare la Silicon Valley, ma che racconta meglio di altri un fenomeno socio- economico già pulsante in Italia. Per inciso, anche la Confindustria con i suoi rituali quasi elisabettiani si è dotata di una gemella «digitale».
Tutto è stato annunciato, dibattuto e smontato come un cubo magico ma nulla è stato compiuto veramente. Una ragione strutturale che scagioni in prima battuta i «ritardatari», in questo caso il governo, c’è sicuramente: al netto di tutte le altre emergenze altrettanto importanti che l’esecutivo di Mario Monti ha dovuto affrontare, c’è il fatto che la burocrazia e anche le gerarchie tradizionali sono troppo lente per le riforme digitali. È come correre in affanno per inseguire una preda che non si deve fermare per dormire, mangiare, bere o riprendere il fiato. Sembra geneticamente modificata e, in qualche maniera, lo è.
Eppure il peggior nemico del digitale made in Italy è qualcosa di altrettanto intangibile seppure ben più antico e rodato del web: il pregiudizio. Solo poche settimane fa l’edizione inglese della testata Wired si era «dimenticata» di citare una giovane azienda italiana nella classifica delle 100 start up europee da seguire. Che sia stata una «dimenticanza» è l’unica spiegazione possibile visto che JobRapido, start up milanese fondata da Vito Lomele, non può essere sfuggita all’occhio degli inglesi essendo stata acquistata pochi mesi fa proprio da un gruppo anglosassone di peso come l’editore del Daily Mail. E altre ce ne sarebbero. Ma ad essere onesti il pregiudizio esterofilo nei nostri confronti non è il solo.
Noi stessi sembriamo i peggiori nemici dell’idea di potere partecipare a pieno titolo al Rinascimento digitale. Paradossalmente i più convinti sulle nostre capacità sembrano proprio gli americani: basterebbe l’impegno dell’Ambasciata Usa in Italia a dimostrarlo o il fatto che Amazon, dopo anni di sfiducia, abbia deciso di aprire una vera base operativa in Italia facendone uno dei Paesi chiave in Europa.
Il governo dovrebbe fare quel passaggio, per certi versi catartico anche se non indolore, che hanno fatto le aziende private, obtorto collo: non c’èmodo di dribblare il problema se si vuole restare sul mercato. Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, forse proprio perché viene dal settore privato lo ha onestamente capito e ha fatto del decreto sulle start up e del digitale i propri cavalli di battaglia. Ma nella riunione del Consiglio deiministri di venerdì dovrà trovare il coraggio di imporre il tema all’attenzione dell’intero governo: non «dopo» la crescita, la spending review e le politiche per l’occupazione, ma di pari passo. Perché l’Agenda digitale è una politica economica che dovrebbe fare da collante a tutto il resto: risparmi nella pubblica amministrazione, creazione di posti di lavoro per i giovani e spinta al Pil.