L’Italia è un Paese nemico della Rete. Per varie ragioni. Una di queste è culturale. Lo si scopre spesso in certi articoli maligni che mirano a denigrare il mondo di Internet, e dove il Corriere della Sera è tra le fonti più autorevoli.
Dopo le varie notizie sugli studi cinesi dei presunti effetti dannosi del Web, e dopo la recente pubblicazione delle teorie panottiche di Evgeny Morozov sul controllo della qualità delle notizie online (che tradotto significa censura), in un articolo del numero cartaceo di stamane del Corriere, Massimo Sideri ha il coraggio di aprire il pezzo affermando che «la transizione verso il digitale in Italia è a buon punto». Il giornalista, prendendo spunto da una fonte della Commissione europea, afferma che in Italia tutti i servizi pubblici di base sono interamente disponibili online. Siamo addirittura più avanti della Germania (col 90,9% dei servizi), della Francia (83,3%) e della media europea a 27 (80,9%).
I numeri citati sono però figli dell’innovazione presunta e mai attuata dalla gestione del simpaticissimo ex ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta. Sulla carta le PA italiane sarebbero presenti online, ma nel territorio reale una grossa fetta di cittadini e la maggior parte dei dipendenti pubblici sono privi degli strumenti tecnici e culturali per sfruttare tutta questa esplosione di innovazione digitale millantata. Se si esclude l’introduzione obbligatoria della PEC (la posta elettronica certificata) negli enti e nelle amministrazioni pubbliche e la digitalizzazione di alcuni processi burocratici della Sanità, il quadro non è così roseo come descrive il Corriere. Persistono migliaia di enti nel Paese (dagli ospedali, ai tribunali, fino ai semplici comuni) che non solo non hanno un sito istituzionale con gli adeguati servizi, ma sono assai carenti nella formazione informatica del personale e nella stessa copertura della rete Internet.
Sideri a ragion veduta scopre però che la Pubblica Amministrazione digitale del Bel Paese è quella fruita meno d’Europa da parte degli stessi cittadini: solo il 10,7% degli italiani infatti sfrutta i servizi online pubblici. In Europa la media è il 19,3%, in Finlandia il 32,23%. E tra il 2008 e il 2010 la percentuale è calata del 2% (dati Eurostat). Come mai allora gli italiani non utilizzano i servizi PA della Rete? Semplice. In questo Paese quattro famiglie su dieci non hanno la possibilità di collegarsi al Web tramite rete fissa. E il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata alla rete né fissa né mobile, secondo i dati Eurostat citati nell’articolo. Merito anche delle scarse infrastrutture di rete ancora sul rame e prive delle tecnologie a fibra ottica, e dell’alto tasso di analfabetismo informatico.
Ma ora c’è il governo Monti che con il decreto legge sulle Semplificazioni si è impegnato a portare avanti la nuovissima Agenda digitale italiana, richiesta da anni dal mercato, dell’economia e ultimamente dall’Agcom. Anche se c’è il rischio che con i 7 milioni di documenti e certificati della PA previsti online si badi più che altro a digitalizzare solamente le identità dei cittadini e i loro conti bancari. Comunque governo e Ministero dello Sviluppo hanno adottato una «cabina di regia», cioè un coordinamento degli interventi, per lo sviluppo delle reti di nuova generazione e della banda larga (che copre attualmente poco più della metà della popolazione), per la condivisione delle informazioni e dei dati pubblici con l’Open Data, per il Cloud e la Smart Communities. Anche se il provvedimento, dicono gli esperti, pare privo della forza necessaria per cambiare l’economia digitale.
Secondo l’Agenda Digitale europea, quella vera, entro il 2020, ogni cittadino dovrà poter accedere alla Rete con una banda a 30 mega, mentre metà delle famiglie dovrà avere accesso a un collegamento a 100 mega. Entro il 2015 metà della popolazione europea dovrebbe fare abitualmente shopping online. E la possibilità per noi di restare confinati nell’altro 50% è alta: nel 2011 solo 27 italiani su 100 hanno ordinato beni sul web (contro 67 della Francia, 77 della Germania e 82 della Gran Bretagna). In questo caso l’Italia si meriterebbe una bella tripla A, per il divario digitale.