L’assegnazione dei diritti tv del Campionato italiano di Serie A (per il triennio 2015-2018) si è chiusa (fortunatamente) dopo un enorme pasticcio tipicamente italiano. Tra frecciate a distanza e minacce di interminabili cause in tribunale tra Sky e Mediaset, i due colossi e storici “nemici” della pay-tv italica, si è giunti ad un accordo che ha letteramente stracciato le regole di partenza dell’asta.
Ma secondo Sky Italia gli stessi regolamenti e le leggi attualmente in vigore per l’assegnazione dei diritti televisivi e per l’esclusività, non sono più adeguati al mercato e all’evoluzione delle piattaforme. La pay-tv di Rupert Murdoch contesta il sistema attuale, sostenendo che non è il modo corretto per valorizzare i prodotti e l’attività pay. Le considerazioni sono riportate all’interno di un documento in possesso di Adnkronos:
Il calcio italiano non ha realizzato appieno il valore del proprio prodotto, in larga parte a causa di una regolamentazione intrusiva, volta a limitare l’esclusiva dei diritti. Le prima regola in tal senso impediva a Stream o Telepiù di detenere una quota superiore al 60% dei diritti in esclusiva. A questa si è aggiunta, nel periodo 2003-11, la Decisione della CE che ha proibito alla piattaforma satellitare post-fusione che già rappresentava il principale finanziatore del calcio italiano, di acquisire diritti in esclusiva. Di conseguenza, a differenza di quanto è accaduto nei principali paesi europei, il sistema del calcio italiano non ha beneficiato del premio associato al valore che l’esclusiva determina per i broadcaster, né ha beneficiato della possibile concorrenza fra esclusive.
Tutto questo senza una sostanziale ragione di fondo: l’esclusiva, infatti, pur vista con ostilità negli ambienti antitrust soprattutto italiani, è strumento essenziale per la differenziazione dell’offerta e quindi non è anticompetitiva per se, ma al contrario rappresenta uno strumento di differenziazione concorrenza per gli operatori del settore. Con l’ultimo bando per l’assegnazione dei diritti della Seria A per il periodo 2015-18, sebbene attraverso un percorso non sempre trasparente e lineare e rispettoso di regole codificate da un bando di gara pubblico, sono stati compiuti piccoli passi in avanti verso un sistema con un maggiore livello di esclusiva.
L’assenza di esclusive, in presenza di costi crescenti dei diritti tv, ha penalizzato fortemente la redditività del comparto pay-tv in Italia, considerato più una sorta di cash cow che un fattore di sviluppo del sistema calcio, un partner per perseguire l’interesse comune di costruire un campionato eccellente. La pay-tv è infatti nettamente la più consistente fonte di finanziamento dell’industria calcistica ed all’interno di questo contesto, il soggetto che investe più risorse paga il prezzo più elevato, sia in assoluto che in termini relativi, con danno per la propria redditività, per i prezzi applicabili al pubblico e, a ruota, per la possibilità di effettuare ulteriori investimenti. In altre parole, le risorse delle pay-tv sono state utilizzate, ad oggi, per perpetrare il funzionamento di un sistema inefficiente, la cui sostenibilità di lungo periodo potrebbe essere seriamente compromessa.
L’obiettivo di riequilibrare costi e ricavi è ormai improcrastinabile. I ricavi sono cresciuti ovunque, soprattutto grazie agli introiti televisivi. Secondo l’Economist, le prime 20 società al mondo si spartiscono 54 miliardi di euro. L’Italia fa sempre più fatica a mantenere la propria quota sul mercato globale, anche a causa di una gestione non sempre lineare dei diritti sportivi. L’aumento dei ricavi da diritti è stata »sperperata« in spese crescenti, soprattutto in alti ingaggi per giocatori di dubbio livello. Il rapporto tra costi dei giocatori ed entrate totali è nelle squadre italiane superiore al 70%, contro poco più del 50% di quelle tedesche.
E’ necessario individuare ed attuare tutti i meccanismi necessari a riportare il sistema in equilibrio, superando il deficit strutturale accumulato nelle passate stagioni, acuito dalla crisi congiunturale, e garantendo la solidità del comparto. Le norme sul Fair Play Finanziario introdotte dalla Uefa per le squadre che intendono partecipare alle competizioni europee rappresentano un esempio virtuoso di come una normativa interna condivisa possa contribuire positivamente alla riduzione degli squilibri.
Per incrementare la sostenibilità finanziaria del business, è necessario intervenire anche sul sistema dei costi, sviluppando modelli che consentano la riduzione delle spese improduttive. Tra queste, è opportuno valutare la necessità di regolamentare l’attività dei procuratori sportivi e, più in generale, degli intermediari (es. advisor della Lega), attraverso l’introduzione di misure che reintroducano nel sistema parte dei loro proventi.
Ad oggi, gli intermediari, con le squadre che hanno perso circa 200 mln nell’ultima stagione e con i broadcaster che offrono il prodotto calcio in perdita (Mediaset Premium) o con margini molto bassi (Sky), sono gli unici soggetti che traggono consistenti profitti e margini significativi dal business calcistico. A titolo esemplificativo, dall’ultimo bando per l’assegnazione dei diritti per la Seria A 2015-18, l’advisor Infront incasserà una percentuale del 2,8% dalla vendita dei diritti nazionali e del 4% dalla vendita degli stessi diritti all’estero (del 4% e del 6% se verrà superata la soglia di euro1,05 miliardi di ricavi complessivi): letteralmente, decine di milioni sottratte nal sistema calcio italiano.